Los colonos (2023)

Los colonos (2023)
“Los colonos” propone la revisione storica, che di recente abbiamo incontrato in “Killers of the Flower Moon” di Martin Scorsese, ambientandola nel profondo Sud, ossia nella Terra del Fuoco di pertinenza cilena, agli inizi del Novecento.
Felipe Gálvez Haberle, al suo primo film da regista, racconta con grande controllo da un lato il genocidio finalizzato a togliere ai nativi le terre più remote dell’America latina, ovviamente per fini di lucro. Dall’altro canto, in modo più profondo, individua senza sconti le radici di quel fascismo che troverà compimento nel golpe di Pinochet circa settant’anni più tardi. 

L’estetica documentaristica si intreccia con il genere western e a interventi più sperimentali (i titoli cubitali rosso sangue che occupano l’intero aspect ratio) senza leziosità didascaliche, mostrando apertamente l’orrore originato da un razzismo viscerale che sgorga dalla tradizione del più becero dominio bianco, sia ispanofono che anglofono. 

“Los colonos” tenta di riscrivere la storia dando voce a chi non l’ha mai avuta, ma non si ferma alle violenze genocide, prosegue la sua indagine smascherando anche le apparenti buone intenzioni, tanto ipocrite quanto autoritarie, del nuovo che avanza. Infatti i governanti riformisti del primo Novecento si fanno promotori di una democrazia più inclusiva verso le genti indigene, ma, in realtà, al contempo, negoziano accordi sottobanco con la vecchia guardia coloniale razzista assassina, minacciando né più né meno di sostituirla.

Gálvez Haberle avvicina dunque l’obiettivo agli occhi dei personaggi in modo da rivelarne l’anima e le intenzioni più recondite, nonostante le parole sovente menzognere. Racconta di confini geografici e mentali, di improbabili strascichi di guerre culturali antichissime che riguardano questioni nazionaliste tra bianchi britannici e statunitensi. Per contro lo sguardo di Segundo, meticcio che – non a caso – ha una mira infallibile, si guadagna il ruolo di testimone principale. Il suo punto di vista viene sostituito da quello della moglie Kiepja nell’ultima, straordinaria, sequenza, assumendo su di sé lo sguardo universale di chi è stato schiacciato e reso schiavo, consapevole del valore dell’autodeterminazione e al quale ora il nuovo corso governativo vuol far credere di aver concesso una ambigua libertà. Una concessione che altro non è che una nuova, subdola, forma di violenza e di ‘reconquista’ di tipo culturale, ma senza bisogno di armi né di sterminio.
Su Mubi.

Challengers (2024)

Challengers (2024)
[Spoiler]
1. Sinossi. Nel 2006 Patrick Zweig (Josh O’Connor) e Art Donaldson (Mike Faist), teenagers liceali, amici sin dall’infanzia, vincono il titolo di doppio junior per ragazzi all’US Open. In seguito incontrano Tashi Duncan (Zendaya), tennista dal talento spumeggianti, ne restano entrambi attratti. Fatalmente. I tre si incontrano in una camera d’albergo ma, al di là di qualche bacio condiviso (anche tra i due ragazzi, i quali si attardano oltremodo, sotto lo sguardo beffardo della ragazza che ne aveva intuito la loro reciproca attrazione, mai ammessa dai due), si fermano poco prima mettere in pratica un sostanziale “threesome”. L’indomani i due giovani si sfidano a tennis: Tashi promette loro che darà il suo numero di telefono a chi ne uscirà vincitore. Patrick batte l’amico, ottenendo un appuntamento da Tashi; in seguito confessa ad Art che ha avuto un rapporto sessuale con la ragazza allineando esplicitamente palla e racchetta.
Nonostante questo precedente, Art non si rassegna e il duello per conquistare Tashi continua al di fuori del campo e nel corso degli anni caratterizzati da alcune invasioni di Patrick nella vita di Tashi e Art. Mentre questi ultimi, in particolare, continuano a giocare a tennis alla Stanford University, Patrick diventa professionista proseguendo una relazione a distanza con Tashi. Spinto dalla gelosia, Art tenta di manipolare rispettivamente il rivale e Tashi, insinuando in entrambi il dubbio sulla sincerità della/del partner per tentare di dividere la coppia. Patrick e Tashi infine litigano, il motivo è scatenato dai consigli non richiesti da parte della ragazza sul tennis e Patrick lascia il college infuriato. Di lì a poco, durante una partita – alla quale Patrick polemicamente non assiste – Tashi subisce un grave infortunio al ginocchio. Quando Patrick arriva in ospedale per confortare Tashi (trovando al suo fianco Art) viene subito cacciato. Art si prende cura du Tashi durante le terapie di recupero, ma il danno è troppo grave mettendo fine la sua carriera di tennista.
Nel 2011, Tashi e Art iniziano una relazione amorosa che si lega alla carriera di Art, del quale diventa allenatrice, che comincia a ottenere nuovi successi sul campo. Una notte Tashi e Patrick si incontrano a margine di un torneo e hanno un’avventura, che Art nota segretamente, mantenendo nel tempo il silenzio.
2019: Tashi e Art, abbiente e famosa coppia sposata, nel frattempo, hanno avuto una figlia. Ad Art manca un titolo degli US Open per raggiungere il Career Grand Slam, ciononostante è particolarmente demotivato dopo essersi ripreso per quanto rapidamente da un infortunio. Per tutta risposta, la risoluta Tashi iscrive Art come jolly in un Challenger da disputare a New Rochelle, nella speranza di poter aumentare la sua autostima e tornare così in forma, battendo avversari di livello inferiore.
Al contempo veniamo a scoprire che la carriera di Patrick non è mai decollata: oggi è un giocatore sconosciuto che vive di espedienti e dorme in macchina, racimolando vincite nei circuiti inferiori: con questo spirito rassegnato partecipa a New Rochelle sperando in una sorta di compenso di partecipazione. Finché non viene a conoscenza della presenza di Art, del tutto inattesa. Così i duellanti avanzano nei rispettivi turni fino a quando non si trovano l’uno di fronte all’altro nella concitata finale, con un Patrick particolarmente ravvivato dalla vicinanza di Tashi: con lei aveva tentato un approccio, piuttosto maldestro, che lì per lì non ottiene risultato, anzi.
Il giorno prima della partita, Patrick tenta anche di parlare con Art che, memore del tradimento scoperto e mai affrontato con la moglie, lo rifiuta esplicitamente rinfacciandogli di essere un fallito. Lo smacco spinge un Patrick particolarmente energico a chiedere, nuovamente di nascosto, a Tashi di divenire la sua allenatrice e di condurlo a un’ultima stagione vincente: ma lei lo respinge di nuovo, pur mettendo in tasca un foglio con su scritto il suo numero di telefono. A stretto giro, Art informa effettivamente la moglie che ha intenzione di ritirarsi alla fine della stagione: che vinca o meno l’Open. Tashi, dapprima accetta il volere del marito, seppure assai delusa, ma nascondendosi dietro frasi di circostanza; in seguito, non senza ambiguità, dice al marito che, se l’indomani perde contro Patrick, lei lo lascerà. Quella stessa notte, Tashi incontra di nuovo Patrick per chiedergli di lasciare vincere la partita ad Art. Dopo una discussione animata, Patrick accetta con riluttanza, a ciò segue una notte di sesso tra i due, in macchina, nel mezzo di una bufera.
Il giorno della finale, evento che fa da cornice al film, Tashi guarda la partita dagli spalti, mentre Art e Patrick si affrontano, in un crescendo di tensione e atteggiamenti provocatori. Patrick vince il primo set, mentre Art si aggiudica il secondo. Quando questi prende il comando portando la partita verso la conclusione, Patrick inizia a perdere terreno commettendo doppi falli. Tuttavia si ferma, poco prima di essere ufficialmente eliminato, segnalando ad Art di aver dormito con Tashi usando quel segnale – palla e racchetta allineate – che aveva già usato nel 2006 per rivelare la notte di sesso avvenuta. Dapprima stordito, Art permette a Patrick di segnare, almeno fino a quando i due non sono di nuovo in pareggio. Durante il tie-break, Art e Patrick si scambiano furiosamente i turni. La finale s’intensifica ulteriormente fino a quando entrambi saltano per un tiro al volo in rete. Prima che possano entrambi colpire la palla (o l’avversario), Art si scontra letteralmente con Patrick, finendo in un abbraccio inatteso e perciò straniante: tra di loro pare riemergere quel vecchio sentimento reciproco, oltre il rancore, che li aveva segnati in gioventù. Nel mentre Tashi, sugli spalti, si abbandona a un urlo liberatorio. Una nuova partita sembra riaprirsi, laddove il tennis diviene un particolare trascurabile.

2. Cosa non è “Challengers”: non è un film sul tennis, non è un film sullo sport, o sui valori olimpionici, non è una allegoria sull’amicizia virile o sulla bromance, non è un un film sulla lealtà amicale o sulla fedeltà coniugale. A Guadagnino non pare interessare tutto ciò, come nei suoi precedenti film del resto; non tenta di trovare una misura della realtà delle cose, o dello sport come metafora di qualcosa di necessariamente edificante oppure negativo. No, anzi. Il motore che conduce questo grande film, tessuto come un patchwork temporale (l’aspetto teorico iperserioso di Nolan è però, fortunatamente, scongiurato), che svela a poco a poco i vari, complessi, passaggi che segnano le età di un profondo rapporto a tre che è tenuto insieme – pretestuosamente – dal tennis. Ma il tennis è un particolare trascurabile; lo sport è – ne più né meno – che un espediente narrativo atto a giustificare i ritorni, una trama che dà vita a un ottimo lavoro di sutura, frutto di un’altrettanto ottima sceneggiatura.

3. Allora, che cosa emerge? Talmente tante cose da non bastare una sola visione, ma spiccano il desiderio e la sensualità, che vanno oltre gli schemi di gioco, le regole e le convenzioni, dove il gioco più interessante è la vita stessa dei protagonisti, e il match è reso sensato dal desiderio, dove il premio è un momento estatico: un bacio, il sesso, ma pure uno sguardo di complicità, un segno convenzionale, volgarmente cameratesco, che divide e al contempo unisce due vissuti.

4. Serge Daney, grande critico e teorico del cinema francese, venne chiamato a raccontare il Roland-Garros. Dinanzi allo spettacolo sportivo, trovò nella costruzione dell’evento, segnato dalla frammentazione narrativa per loci, per episodi (le singole partite), rappresentato dai protagonisti, dal loro agonismo, un carisma invisibile eppure percepibile, una metafora per il cinema. E viceversa. Ovviamente non vi trovò solo questo, ma Guadagnino che con “Challengers” crea un film teorico – ma senza le pesantezze retoriche insistite di un Cameron o del già citato Nolan – gioca a propria volta con il pregresso cinefilo. Mi riferisco, ovviamente, ai vari “passo a tre” presenti in “Jules et Jim”, “Bande à part” e giù a scendere sino all’amato – da Guadagnino – Bertolucci di “The Dreamers”. Tutto giusto, ma anche tutto estremamente diverso. La sceneggiatura asciutta e leggera, ad esempio, fa pensare a Woody Allen (non necessariamente a quello di “Match point”) perché Guadagnino costruisce via via un dramma della gelosia, un duello che diventa “triello” (ma non alla Sergio Leone: non mi pare appropriato il riferimento al “Buono, il brutto il cattivo” che ho letto in giro, troppo fuorviante: manca il desiderio sessuale che lega i tre di Guadagnino). Perché la cifra ironica di Guadagnino è da accogliere senza riserve, se non la si percepisce, o la si rifiuta, ecco che il film muore: si secca nella ricerca vana di un realismo che non c’è. E’ questo un cinema innovativo che vuole fare (ancora) il Cinema: grande cinema, con le sue inquadrature mirabolanti, soggettive originate da racchette e palline, rallentamenti che svelano sorrisi maliziosi, le musiche di Trent Reznor che sovrastano, a tratti, le parti più vivide e pulsanti, incrociando desiderio e corpi, senza fare vuota retorica della fluidità, ma, anzi, parlando di tutto, andando oltre i cliché, giocandoci, sintetizzando l’inesprimibile in quell’urlo, inaspettato come l’abbraccio, che chiude il film senza, però, chiudere un bel niente.
Infine, se c’è una citazione che forse vale la pena ripensare per confronto è la partita a tennis surrealmente comica quanto inquietante che chiude, anche qui senza chiudere realmente, “Blow up” di Antonioni. Mutatis mutandis.
C’est à dire: il tennis è cinema. E viceversa.

Ripley (2024)

Ripley (2024)
Serie antologica di Netflix che riporta la qualità narrativa e della messinscena a livelli che sembravano appartenere a una sempre più remota fase delle produzioni audiovisive pensate per le piattaforme.
Ladro di identità e di beni, alquanto goffo, Tom Ripley è un perfetto parassita replicante che sfugge al castigo grazie a una fortuna costante. Strano a dirsi nell’Italia in bianco/nero della dolce vita e dei paparazzi a ogni angolo, ma tant’è che nessuno lo fotografa, nemmeno una fotografa di professione che il caso gli mette di traverso. Nessuno tiene documentazione dei suoi connotati, tolto qualche scatto per i documenti.
Almeno fino al colpo di scena finale, ma anche qui la scoperta avviene per via indiretta, per sottrazione.

Grande sceneggiatore, Steven Zaillian, gioca ironicamente con gli stereotipi dell’Italia del Boom: la qualità della vita, l’alta sartoria, il design modernista, il culto delle comodità e del lusso, l’arte insistente, le meraviglie paesaggistiche, la motorizzazione di massa (segnatamente la Cinquecento), gli echi della musica leggera (diegetica, con tanto di giovane Mina), la musica per il cinema (extradiegetica che rimanda a Nino Rota) e gli uomini mori e baffuti (tranne poche eccezioni che confermano la regola). Un’operazione di filologia estetica che, grazie anche alla computer grafica, riporta un cristallo di anni Sessanta sullo schermo. Forse fin troppo idealizzato, pulito, controllato, talmente coerente da risultare museale. Ma in mezzo a tanta sciatteria è una boccata d’aria.
Da vedere (e rivedere: soprattutto il primo episodio) per apprezzarne la cura dei dettagli, del bianco e nero (grande ritorno nelle produzioni attuali), dell’uso di una luce metallica che su Ripley (fronte luminosa, occhi bui) aumenta l’effetto replicante: un freddo androide ostinato a rispecchiarsi nel “maledetto” Caravaggio, per questione di luce, per emergere da un fondo buio e raggiungere un propria luce, per quanto falsa. Una luce ideale, irreale, ultraterrena come nella “Vocazione di San Matteo”, tela di Caravaggio – vera ossessione per il protagonista – conservata in San Luigi dei Francesi. Solo che nel caso di Ripley è una luce di origine luciferina. La luce riverbera anche nel nome del gatto-testimone Lucio, che per un gioco di specchi è pure il nome della vittima di Caravaggio. Un gatto statuario che, involontariamente, con le sue orme (l’unica sequenza a colori) rischia di far scoprire il castello di menzogne di Ripley agli occhi della solerte portiera interpretata da Margherita Buy.
Rashkolnikov redivivo, anche se in parte, Ripley fa di tutto per essere scoperto, ma ha nel caso sorridente un forte alleato. Sfugge nonostante la tenacia di un ispettore (un bravo Maurizio Lombardi) che pare uscire dalle vignette di Diabolik più che da un noir francese di quegli stessi anni.
Ripley nel suo essere replay (pardon) diventa, infine, D’Annunzio, anzi il suo alter ego Andrea Sperelli, immerso nella luce veneziana riflessa dall’acqua: il gioco tiene, trova anzi un nuovo alleato, interpretato da John Malkovich, che fu egli stesso carismatico Ripley per Liliana Cavani.

Parliamo infine dei figuranti italiani: non mancano attori degni di questo nome in giro, non avevamo dubbi. Li vediamo spesso nelle fiction nostrane pure, ma qui capiamo che il problema è nel manico, nella regia, nella direzione sicura, nella valorizzazione, nel mestiere.

“Ripley” vuole essere un ottimo prodotto seriale che desidera intrattenere sempre sull’orlo del baratro, giocando con i cliché del genere noir, citando Visconti – l’amico dandy, Freddie Miles, è una reincarnazione a metà tra Helmut Berger e Björn Andrésen, l’interprete di Tadzio -, Fellini – citatissimo finanche nel titolo del quarto episodio – e Antonioni che ritroviamo nelle pieghe del tedio borghese, nell’affettazione di Dikie e di Maggie, ma soprattutto, nel blow up che chiude il serial.
Su Netflix

Juste la fin du monde – È solo la fine del mondo (2016)

Juste la fin du monde – È solo la fine del mondo (2016)
Il sesto lungometraggio diretto da Xavier Dolan è basato sull’opera teatrale omonima di Jean-Luc Lagarce. La trama ruota attorno a Louis (Gaspard Ulliel, attore venuto a mancare nel 2022), un drammaturgo che ritorna nella sua città natale dopo dodici anni di sostanziale silenzio per annunciare alla famiglia di origine la sua imminente morte a causa di una malattia terminale.
Sin dal suo arrivo Louis si confronta via via con la madre (Nathalie Baye), la sorella minore Suzanne (Léa Seydoux), il fratello maggiore Antoine (Vincent Cassel) e la moglie di questi Catherine (Marion Cotillard). Tuttavia, la visita si trasforma rapidamente in una serie di occasioni utili a far emergere conflitti emotivi. Dal passato, infatti, riaffiorano tensioni e risentimenti tra i familiari, soprattutto innescati da parte dell’incendiario Antoine, spirito particolarmente polemico incline a bullizzare fratelli e madre.
La presenza inattesa di Louis è di per se stessa disturbante se non provocatoria e contribuisce, suo malgrado, ad aumentare le distanze tra tutti i presenti, come una sorta di cartina al tornasole del risentimento. La comunicazione tra i singoli fratelli e la madre, già di per sé frammentaria, superficiale e inconcludente, spesso è distorta da lunghe pause e sottintesi che terminano con gli accessi d’ira e le fughe plateali di Antoine.

“Juste la fin du monde” si inserisce coerentemente nella filmografia dolaniana contribuendo a esplorare le dinamiche familiari intricate tra desideri repressi, non-detto e non-pronunciabile.
Ambientato principalmente all’interno della casa materna (sorta di one-location movie), il film si può permettere di approfondire il proprio sguardo penetrante su ogni singolo personaggio: ognuno a suo modo è una sfinge, come dimostra l’incapacità di comunicare con il prossimo e, forse, con il proprio io.
Nonostante l’incipit programmatico (si rimane in attesa della rivelazione da parte del protagonista), la vicenda è guidata principalmente dalle interazioni spesso disfunzionali tra i familiari e dalla riemersione graduale, talvolta involontaria, di vecchi segreti e ferite emotive. Dolan compone un ritratto intenso e intimo di una famiglia in crisi, divisa da muri di parole vane, che riflette preoccupazioni e ossessioni emotivo-relazionali tipiche del lavoro di Dolan.

Da un punto di vista stilistico la regia conferma alcune caratteristiche che via via sono diventate parte integrante della filmografia dolaniana. L’atmosfera emotiva, infatti, permea ogni sequenza, luogo, oggetto in diretta relazione con le qualità caratteriali del singolo personaggio. La tensione tra i familiari è resa in modo plastico: cresce di sequenza in sequenza, esplorando le dinamiche colloquiali e non-verbali con una profondità e un’intensità rare.
Così come è avvenuto nei film precedenti, anche in questo caso lo stile visivo distintivo di Dolan utilizza diversi espedienti tecnico-visivi per rappresentare il mondo interiore dei suoi personaggi. Ad esempio l’uso frequente di piani ravvicinati utili per catturare le micro espressioni dei volti e i movimenti minimi dei corpi; un montaggio celere atto ad accentuare le emozioni più o meno esplicitate o represse, nonché giochi di colore – omaggio al cinema di Wong kar-wai, mito del regista canadese – per giungere a creare una connessione percettiva con lo spettatore.
Data l’origine del soggetto, i dialoghi risentono un certo rigore teatrale e risultano complessi, spesso ricchi di significati impliciti e sottintesi, contribuendo a creare una tensione evocatrice costante. Quasi mai le parole corrispondono ai sentimenti dei personaggi, ma Dolan non si limita a mettere in scena una in fondo rassicurante ipocrisia borghese: persiste, anzi, nel film un pregresso indicibile che impedisce il dialogo aperto e senza infingimenti tra i familiari, anche in chi abusa di atteggiamenti arroganti, aggressivi e verbalmente violenti. Sono gli effetti dell’ostensione di maschere-scudo che impediscono la penetrazione altrui, né più né meno. Perciò il film si concentra sulle pause e sulle espressioni non verbali, più che sulla valanga di vuote parole, indagandone semmai, ove possibile, un eventuale significato altro.
Come nei film precedenti, la colonna sonora svolge un ruolo importante, se non decisivo, contribuendo a creare atmosfera, evocazioni, veicolando pensieri e a sottolinearne i momenti chiave. Dolan sceglie accuratamente le tracce musicali per amplificare le emozioni dei personaggi e sottolineare alcuni temi portanti della messinscena.
Come accennato, pur non sviluppando un soggetto originale dell’autore, il film persegue l’esplorazione dolaniana delle complesse dinamiche familiari e le relazioni interpersonali. “È solo la fine del mondo” pare concentrarsi sul ritorno a casa di un uomo finalizzato all’annuncio della sua imminente morte, ma sin da subito il percorso diventa centripeto rispetto alle intenzioni del protagonista. In evidenza rimangono le tensioni e i conflitti senza soluzione, sorta di sostanza psicotropa che inganna finanche la morte, non solo di Louis, regalando altresì un’illusione di eterno presente, per quanto ostile, sostanza di cui ogni familiare pare abusare per poter sopravvivere. A ognuno rimane la propria parte e il proprio destino di monade immerso in una solitudine affollata.

    Mommy (2014)

    Mommy (2014)
    Il quinto lungometraggio diretto da Xavier Dolan è un dramma di ambientazione distopica che racconta la storia di Diane (Anne Dorval) madre di Steve (Antoine Olivier Pilon) adolescente problematico di cui si occupa con estrema difficoltà, da sola – essendo, nel frattempo, rimasta vedova -, servendosi dell’occasionale aiuto offertole dalla vicina di casa Kyla (Suzanne Clément). Il film si concentra sulle relazioni edipiche tra figlio e madre e sulle sfide, spesso estreme, affrontate dalla famiglia.
    Una delle caratteristiche distintive di “Mommy” è il suo formato, insolito, girato in un rapporto d’aspetto 1:1 che evoca i reel ripresi con lo smartphone; la stretta finestra di visione crea così un senso di intimità e claustrofobia a un tempo. Inoltre, la cornice verticalizzante mette in evidenza le emozioni dei personaggi accentuandone il loro stato d’animo, che oscilla tra calma apparente ed esplosioni di aggressività che sconfinano, talvolta, nella violenza. Il film è stato acclamato dalla critica sia per le performance attoriche intense – i tre protagonisti sono bravissimi – sia per la regia audace e innovativa. A questo proposito rimane celebre l’improvviso allargamento dell’aspect ratio che dall’asfittico rapporto 1:1 porta a un 16:9 panoramico, azione che riflette il senso di libertà acquisita, seppure temporaneamente, dal giovane protagonista.

    “Mommy” è noto per diverse caratteristiche stilistiche distintive. Tra esse, oltre al formato 1:1, possiamo citare una colonna sonora ricca caratterizzata da una selezione di brani pop e indie che contribuiscono ad amplificare le emozioni totalizzanti dei protagonisti.
    Dolan utilizza una serie di tecniche visive dinamiche, tra cui montaggio serrato e movimenti di macchina veloci e incisivi, ossia movimenti che si fanno notare, tramutando il punto di vista teoricamente impersonale in una sorta di soggettiva dello spettatore, per quanto vaga. A ciò si unisce un utilizzo di colori saturi che evocano i sentimenti estremi vissuti da Steve e da chi ne condivide la quotidianità.
    Dolan, attore egli stesso (anche se qui non compare), è da sempre un ottimo direttore di interpreti: le singole prove attoriali contribuiscono in modo significativo a trasmettere ogni complessità psicologica ed emotiva. Anche la quota narrativa diviene totalizzante a livello di immedesimazione spettatoriale: “Mommy” esplora temi e limiti dell’amore materno/filiale/amicale; il senso del sacrificio in tutte le sue sfaccettature e ambiguità; la questione della responsabilità genitoriale/patria potestà e conseguenze relative; il significato di perdono (e di auto-perdono) attraverso una messinscena che via via insinua dubbi sempre più laceranti.
    Ancora una volta Dolan illumina i conflitti di una famiglia disfunzionale in modo crudo e particolarmente onesto atto a suscitare una immedesimazione critica e autocritica in chi osserva.
    Nel complesso, le caratteristiche stilistiche e narrative si qui citate si combinano fluidamente tra esse creando un’esperienza spettatoriale intensa, a tratti estrema, firma distintiva del lavoro di Xavier Dolan.

    A livello critico “Mommy” è considerato uno dei migliori lavori del regista e ha vinto, tra l’altro, il Premio della Giuria al Festival di Cannes 2014 ex-æquo con “Adieu au langage – Addio al linguaggio” di Jean-Luc Godard.

      Il film si può trovare nel catalogo delle più note piattaforme di streaming.

      Tom à la ferme (2013)

      Tom à la ferme (2013)
      Il soggetto di “Tom à la ferme” è basato sull’omonima opera teatrale di Michel Marc Bouchard. Il plot del quarto lungometraggio di Xavier Dolan ruota attorno a Tom (Dolan), giovane uomo che capita in una zona rurale del Quebec per il funerale del suo compagno, Guillaume. Qui scopre che la madre del giovane defunto, Agathe, non sa nulla dell’omosessualità di questi, e il mantenimento di tale segreto è all’origine del conflitto con il fratello di Guillaume, Francis (Pierre-Yves Cardinal), ambigua figura violenta e manipolatrice.
      Di punto in bianco, senza capire bene il perché, Tom si ritrova intrappolato in una situazione domestica assai opaca e pericolosa, dove è costretto a mentire sul proprio passato, ma, al contempo, sente l’innato bisogno di rimanere accanto ad Agathe e Francis aiutandoli nella conduzione della fattoria. Il ragazzo, dunque, potrebbe fuggire, ma un sentimento contraddittorio e morboso nei confronti di Francis, di cui subisce il fascino, lo lega a una dipendenza che ha i tratti della sindrome di Stoccolma. Passano i giorni e Tom, oggetto di continue violenze da parte di Francis, totalmente plagiato da quest’ultimo, chiama a far parte della macchinazione anche Sarah (Évelyne Brochu) cui spetta il ruolo della presunta fidanzata di Guillaume. Di conseguenza si creano nuove connessioni sensuali tra Francis e Sarah, all’origine di ribaltamenti radicali tra realtà e messinscena, nonché la repentina marginalizzazione di Tom, fatto esiziale che crea le condizioni per uno spiraglio di salvezza.

      Pur essendo un film di impianto teatrale – talvolta sin troppo evidente sul piano della recitazione -, “Tom à la ferme” si distingue per notevoli qualità stilistico-cinematografiche; la regia di Dolan punta a creare un’atmosfera claustrofobica, utilizzando inquadrature ravvicinate atte a mettere in evidenza l’isolamento psicologico e la tensione emotiva che condiziona i personaggi. In aggiunta si serve di una colonna sonora altrettanto descrittiva e partecipe. Il regista, dunque, si concentra sempre più sulle relazioni complesse che si vengono a creare tra i personaggi. Nel mentre l’ipotizzabile omosessualità repressa di Francis diviene solo una parte di un mondo malato: il focus, infatti, si posiziona sulla menzogna motivata da sovrastrutture sociali che contribuisce a mantenere un’idea, obsolescente e anacronistica, di una supposta società contadina. Una società che, manco a dirlo, è fondata su principi patriarcali – invero machisti – che non manca di collidere violentemente con la modernità e le sue attrattive. Da ciò derivano pesanti contraddizioni e relativi sensi di colpa che generano una dipendenza dalla pratica della violenza – anche subita – che sfocia in sadismo patologico, nutrito dal conclamato squilibrio mentale di Francis e della madre. Il linguaggio non-verbale per Dolan è altrettanto strumentale per esplorare i conflitti interni dei personaggi e per trasmettere la loro vulnerabilità emotiva, inclusa quella del villain di turno.
      Per aumentare il senso di precarietà vissuta da Tom, Dolan si serve di un montaggio dinamico che contribuisce a mantenere alta la tensione e ad attirare l’attenzione dello spettatore su alcuni particolari significativi, senza didascalismi, ispirandosi allo stile sincopato che si ritrova, al solito, nel cinema horror.

      Ben più del tema dell’omosessualità, cifra autobiografica che rimane sempre a distanza di sicurezza dal plot, sono le famiglie disfunzionali a rappresentare il centro della poetica di Dolan. Le controverse figure della madre e, talvolta, del fratello maggiore sono fonte di un dolore difficilmente definibile e sanabile, ma evitabile solo con la fuga, ma fuga che prelude un ritorno che ritroviamo, seppure con diverse variazioni, nei precedenti “J’ai tué ma mère” e “Laurence Anyways”, che prosegue anche in “Mommy”, “È solo la fine del mondo” e “La mia vita con John F. Donovan”.
      “Tom à la ferme” è disponibile sulla library di Movies Inspired+ e su altre piattaforme in forma di acquisto o noleggio.

      Laurence Anyways – Laurence Anyways e il desiderio di una donna… (2012)

      Laurence Anyways – Laurence Anyways e il desiderio di una donna… (2012)
      Terzo lungometraggio del quebecchese Xavier Dolan, allora ventitrenne, è opera complessa per tema, realizzazione e impegno (dura 159 minuti), che ha diviso critica e pubblico e, non a caso, esce in Italia solo nel 2016, con estrema difficoltà, sulla scorta del crescente interesse per Dolan; il quale, nel frattempo, ha realizzato “Tom à la ferme” (2013), “Mommy” (2014) e “Juste la fin du monde” (2016).
      Il fulcro del film è rappresentato dal tema della transizione che il sottotitolo italiano esprime in tutta la sua inadeguatezza attraverso uno stupido didascalismo giocato sull’ambiguità. Purtroppo anche il doppiaggio e i dialoghi tradotti nella nostra lingua non rendono particolare servizio al film che, per essere apprezzato, anche nelle performance talvolta d’impronta teatrale, andrebbe visto in versione originale.
      Detto questo, rivisto oggi, a distanza di più di dieci anni dal suo debutto ufficiale, il film restituisce frammenti di un discorso amoroso e sociale che, all’epoca, prendeva i primi passi per incontrare il grande pubblico dei festival, in particolare Cannes. Con coraggio, Dolan mette in scena le gravi difficoltà vissute da Laurence, interpretato da un bravissimo Melvil Poupaud, al centro di un amore corrisposto e tempestoso che però mette in crisi le norme acquisite e le convenzioni sociali. Infatti il protagonista del film è un uomo sposato che, superati i trenta, dopo una vita basata sull’eteronormatività si libera dagli schemi sociali e sessuali esibendo ai propri occhi e quelli del mondo il suo sentirsi donna in un corpo di uomo; annunciando, al contempo, il suo desiderio di compiere la transizione.
      Il difficile rapporto con i colleghi docenti, Laurence è, infatti, insegnante, dimostra un mondo (ancora) venato di perbenismo e ipocrisia nonostante apparenti aperture basate sul concetto ambiguo di tolleranza. Un mondo salvato dagli studenti medi che, invece, non sembrano accusare il colpo, nonostante qualche eccezione fisiologica, allorquando Laurence si presenta in classe in abiti femminili. Contemporaneamente Laurence deve affrontare il difficilissimo rapporto con la famiglia di origine – laddove torna il tema dolaniano del conflitto estremo intervallato con la complicità nei confronti della madre (Nathalie Baye che per Dolan rivestirà il ruolo nel successivo “Juste la fin du monde – E’ solo la fine del mondo” del 2016) e l’assenza di un padre, sorta di larva da divano.
      Ma è soprattutto il dramma condiviso con l’ex moglie Fred, un’altrettanto brava Suzanne Clément (attrice che lavora in più riprese con Dolan) a contrappuntare il film. Fred è la donna della vita di Laurence con la quale conosce fratture e riprese che avvengono nel corso tempo. Non manca un improvviso ritorno di passione, nonostante il divorzio, e nonostante Fred, nel frattempo, si sposi con un altro uomo e con questi abbia un figlio. L’attrazione amorosa tra Laurence e Fred non è mai realmente sopita, va oltre la transizione, gli allontanamenti, sopravvive nel desiderio di una vita parallela a quella ufficiale, alla ricerca di una complicità sensuale più che di una compatibilità sociale e familiare fattuale.
      Cinque anni dopo scopriamo che Laurence, sempre attratta dalle donne, si è costruita una nuova vita con una compagna, Charlotte, ma continua a ripensare a Fred: la cerca e, sostanzialmente, la spia appostandosi sotto casa in incognito. Laurence, in occasione della pubblicazione del suo libro di poesie, ne spedisce una copia a Fred, fatto che riaccende la passione tra i due ex coniugi e che genera una fuga d’amore in un luogo simbolico, da sempre desiderato da entrambi. Ben presto il risentimento prende di nuovo il sopravvento: Fred finalmente rivela a Laurence che era incinta quando decide di cambiare sesso e questa nuova condizione traumatica la spinse ad abortire, lasciando Laurence sconvolta e amareggiata. Allo stesso tempo Charlotte, in cerca di vendetta, informa il marito di Fred del tradimento in atto. Ma il dialogo tra i due fuggiaschi è ormai compromesso e li porta verso un nuovo allontanamento.
      Otto anni dopo le sequenze iniziali del film, Laurence – divenuta una sorta di celebrità – viene intervistata. Durante il difficile dialogo con la giornalista, la quale vive un evidente imbarazzo, probabilmente legato al pregiudizio, rivela un nuovo difficile quanto fallimentare incontro con Fred, nel frattempo divorziata dal marito. Ecco che nelle ultime immagini del film, Dolan riporta lo spettatore alle origini della storia d’amore tra Laurence e Fred, storia tanto intensa quanto burrascosa, scoprendo come i due si sono incontrati su un set cinematografico innamorandosi all’istante l’uno dell’altra, giocando nel riflesso di una sorta di narrazione metacinematografica che rivela un ulteriore tassello mancante. Visto che ciò che manca può rappresentare l’essenza del film.
      Come anticipato il soggetto costruisce e decostruisce fasi diverse di una relazione contrastata, spezzandola in unità di tempo precise con repentine fughe in avanti che però si compiono in un significativo flashback proiettato oltre gli schemi di genere e di orientamento sessuale atto ad aprirsi al concetto più ampio di queer.
      La discontinuità del percorso narrativo non rende facile la lettura del film, il quale – a mio avviso – necessita di una nuova visione per essere apprezzato in pieno. Certo sorprende il grado di consapevolezza di un autore prolifico qual è Dolan (qual era, forse, visto l’annunciato ritiro dalle scene recente), nonostante la giovane età.
      Il film è tratto da una storia vera ed è coprodotto da Gus Van Sant, regista apripista assai attento alle tematiche queer.

      L’été dernier – Ancora un’estate (2023)

      L’été dernier – Ancora un’estate (2023)
      Dopo una pausa di dieci anni, Catherine Breillat torna dietro la macchina da presa. Una regista che ha saputo creare sapidi ‘scandali’ su pellicola, ed è impareggiabile maestra di anticonformismo. Un anticonformismo spesso visto con sospetto da una critica che non sembra averla troppo capita, di rado apprezzandone l’esplicita rappresentazione del perturbante via via stanato nei tabù culturali.
      Il suo cinema è mostrativo, è fatto di corpi e di passioni, ma pure di armonie e di connessioni fisiche e mentali. A settantacinque anni torna a sceneggiare di un romanzo di formazione osservandolo/filtrandolo attraverso un binocolo rovesciato. Protagonista è una donna in età, è borghese, ricca, indipendente, con una frustrazione di maternità colmata dall’adozione di due bambine, è amata da un marito probabilmente più anziano di lei che ama e con il quale fa ancora l’amore, ma. Ma, arrivata l’estate, da un giorno all’altro, questa donna appagata professionalmente, personalmente, sessualmente, comincia a osservare un fanciullo in fiore che giunge a casa sua per motivi che non rivelerò. Ne rimane via via incuriosita e poi attratta sino all’inattesa resa, anche fisica, che la porta a sperimentare una relazione oltre ogni convenienza, convenzione sociale e familiare. Il film da qui in poi non fa sconti a nessuno: non ai suoi personaggi né agli spettatori (trivia: e quanti ne sono usciti durante la proiezione pomeridiana! Talvolta anche rumorosamente).
      Breillat sa parlare una lingua comprensibile a tutti, la lingua dei sensi e del non verbale e la sa cucire come una perfetta stilista attenta ai dettagli minimi: ritmo, parole, dialoghi, sguardi rimandano agli ormoni in gran subbuglio. L’estetica dell’erotismo la affascina poco, a suo stesso dire: la lascia al pubblico, se riesce a trovarla tra i corpi e i volti pervasi dal piacere sessuale.
      Quel che le interessa è l’occasione che si viene a creare durante quell’estate, la stagione (prima letteraria e poi cinematografica) delle scoperte, del contatto con la natura. La sensualità impressionista di “Partie de campagne”, capolavoro cinematografico di Jean Renoir, qui riemerge tra i bagni negli specchi d’acqua, tra i canneti, che vediamo praticare dai protagonisti, luogo in cui i corpi tornano a scoprirsi in tutti i sensi e a favore di tutti i sensi.
      Banalizzando, in”L’été dernier” – così come in “May December”, film che potremmo definire più cugino che fratello (ne ho scritto qui: https://excinextra.com/2024/03/25/may-december-2023/) – Breillat pare ricondurre i singoli personaggi a livello di natura, spogliandoli finanche dai ruoli sociali: è la donna adulta a essere cacciatrice anche se si crede preda; la sua controparte, il ragazzo, un adolescente esuberante che non conosce pudore, è una preda anche se si crede cacciatore. Al contrario del citato film di Todd Haynes qui, però, non c’è un futuro luminoso per la coppia, tutt’altro. L’unico futuro possibile è tra le braccia delle tenebre, ai margini di quella casa divenuta scrigno di un segreto scandaloso e inconfessabile, qui sì che il desiderio sessuale può trionfare sulla verità, mentre, al contempo, le menzogne si moltiplicano diventando l’unica realtà percorribile, vista l’entità del danno (come suggerisce l’omonimo film di Luis Malle) che coinvolge persone e familiari stretti: un marito/padre, due figlie e una sorella.
      [Spoiler] Il novello Tadzio, assai rassomigliante all’omologo attore viscontiano della traduzione cinematografica di “Morte a Venezia”, giunge, daimon inconsapevole, a dividere ciò che era unito e si sentiva forte, e ancora – quando tutto viceversa sembrava disunito – giunge a riunire, per mezzo del sesso, forse per mezzo dell’amore (fors’anche ricambiato dalla protagonista). Resta sospeso quel che può rimanere legato inesorabilmente tra padre, figlio e matrigna, come nella tradizione delle favole e del mito antico. Perché, per quanto verisimile, di fabula si tratta. Certo è una favola in precario equilibrio tra responsabilità e desiderio, tra morale e immorale, lecito e illecito, consenso e manipolazione, legale e illegale. La protagonista è avvocatessa, per di più specializzata nella difesa dei minori. E, infatti, nel mondo circostante gli abusi accadono: spia ne è una digressione che contrappunta la storia principale, mostrando come l’avvocatessa affronti la situazione precaria di una ragazzina affidata a un padre non proprio rassicurante. Dunque questa donna sa, capisce, se ne intende perché conosce bene l’abisso e il limite che lo circoscrive. Tutto ciò (e oltre ciò) viene ri-spazzato via in una ennesima calda notte di passione rubata alle carte bollate, al castello di menzogne, al non detto e al confessato, al patto segreto e alle autoillusioni dei comprimari. Una notte che però non sembra voler essere l’ultima. E proprio in quel buio l’estrema ultima luce viene riflessa dalla fede al dito del marito/padre tradito, mentre riaccoglie tra le braccia la moglie dopo un amplesso totalizzante, avuto fuori da quel talamo nuziale, dalla promessa di fedeltà, nel mentre la invita al silenzio. Al non rivelare ciò che è, ossia l’ineluttabile circolarità che scorre fuori da ogni convenzione, pudore e morale stabilita. In poche parole tutto ciò che sborda, dirompente, al di là del debole recinto protettivo del conformismo.

      Les Amours imaginaires (2010)

      Les Amours imaginaires (2010)
      Secondo lungometraggio di Xavier Dolan che prosegue una sorta di diario autobiografico sentimentale (per quanto finzionale e autoironico e non sequenziale al primo film), dando vita a un gioco di citazioni cinematografiche imperniato sul desiderio inappagato.
      Si sprecano i riferimenti a livello di racconto e gli omaggi formali (sequenze, costumi, trucco-parrucco) riferibili a “In the mood for love” (2000) di Wong Kar-wai. Accanto a ciò compare un riferimento, forse spurio, all’intervento del daimon pasoliniano di “Teorema” che scombina con la sua sola presenza una situazione di routine pregressa e che ritroveremo, metamorfizzata, in “Tom à la ferme” (2013). Il tutto è intrecciato dal gusto cronachistico suddiviso in modo temporalmente didascalico derivativo della nouvelle vague, nonché supportato dai commento musicale significante in forma di canzone, che rimanda all’uso che al solito ne fa Almodovar, qui più che mai convitato di pietra. Personalmente vi ritrovo un’impronta egotico-narrativa che ricorda il primo Moretti come già rilevato per “J’ai tué ma mère” (ne ho scritto qui: https://excinextra.com/2024/03/28/jai-tue-ma-mere-2009/).
      Quella di Dolan è una regia che in questo caso rischia di esaurirsi in una pratica cinefila, seppure esteticamente curata sin nei dettagli più estremi. Né più né meno che un esercizio di bella penna più appropriato per un soggetto a cortometraggio, non riesce a nascondere alcune debolezze e lungaggini, nonostante il filtro esorcistico della dramedy.
      Niente di sorprendente; niente di nuovo sul fronte occidentale.

      J’ai tué ma mère (2009)

      J’ai tué ma mère (2009)
      L’astro autoriale-egotico del giovanissimo Xavier Dolan, enfant prodige quebecchese, si manifesta in un racconto autobiografico (?) che si impernia nel difficile rapporto di un diciassettenne, Hubert (Dolan), con la madre divorziata (Anne Dorval, attrice feticcio per Dolan) fatto di fughe e ritorni. La figura materna è, come il figlio, caotica, discontinua e contraddittoria, presentissima sino all’ossessione, quanto indifferente alla bisogna. A fronte di un padre assente, il quale compare solo per comminare una estrema misura di costrizione, ossia la condanna di Hubert al confino di un temibile collegio.
      La forza del film è nell’invenzione discorsiva speculare madre/figlio-figlio/madre continuamente disturbata da nuovi colpi di scena, reciproci abbandoni, ritorni, bugie, omissioni, ripicche e sensi di colpa. Si tratta di una rivoluzione continua che tiene in piedi un rapporto di grande conflittualità nella complicità.
      Molti sono i temi messi sul tappeto, forse troppi. Oltre all’adolescenza inquieta di Hubert (inquietudine umorale, ma piuttosto circoscritta), l’omosessualità tenuta nascosta alla madre e il problema derivato da un maldestro outing a causa del quale la donna viene a conoscere l’orientamento sessuale del figlio. Sullo sfondo anche le diversità delle famiglie più o meno aperte al nuovo, il ruolo della scuola, quale fucina di frustrazioni e luogo simbolo che richiama una tradizione cinematografica ben precisa, quella del teen movie anni Ottanta con il quale il ventenne Dolan gioca, tra citazioni più o meno volontarie.
      In mezzo alla narrazione raspodica, fatta per segmenti piuttosto netti, emerge il talento attorico di Dolan e l’attitudine all’uso di immagini fantasiose, oniroidi, frutto della fervida immaginazione del protagonista.
      Per la centralità del protagonista alle prese con ossessioni individuali e relazioni familiari frustranti il film pare evocare – mutatis mutandis – il primo Nanni Moretti.
      Disponibile su Movies Inspired+

      May December (2023)

      May December (2023)
      Tanti specchi emergono, dal nero, lungo tutto il film, e sono lì a moltiplicare le nostre certezze, tanto quanto le nostre sicurezze, vere e presunte. Moltiplicando anche l’io di un personaggio rispetto all’altro, e rispetto alla nostra percezione dell’altro. In un rapporto circolare con noi stessi spettatori, sino a farci diventare un tutt’uno indistinto: io, noi, gli altri, circonfusione di pregiudizi, facili soluzioni, ma pure di colpi di scena inattesi.
      “May December” (modo di dire che indica una relazione caratterizzata da una forte disparità di età nella coppia) è una storia di donne, si dirà, uno sguardo “al femminile”. No e sì.
      No, perché la specularizzazione vale per tutti i figuranti, laddove nessuna esclusione di genere si può salvare o sentire assolta.
      Sì, perché l’aspetto della seduzione/rivalità femminile è centrale quanto volutamente fuorviante, almeno fino a un certo punto del racconto.
      Haynes è esperto di specularizzazioni più o meno mediate o ri-mediate: ricordiamo, ad esempio, il bellissimo film sulle rifrazioni divistiche che animano “Velvet Goldmine” o nell’altrettanto intenso passo a due: “Carol”. Ma in “May December”, in più, oltre a ciò, emerge lo sguardo del detective che ritorna ciclicamente su temi e nodi psicologici. Anche su quelli che sembrano risolti, o dimenticati, riproponendo nuovi dubbi laddove già ce n’erano, riaprendo porte che risultavano sigillate. E’ un film di false piste, ma senza averne l’aria tantomeno la preoccupazione di stare lì a voler ingannare lo spettatore. Più semplicemente, dal nostro pur privilegiato punto di vista, ci si accorge, improvvisamente, di quel particolare invisibile, nonostante si trovasse dinanzi a noi, perché via via la prospettiva si è allargata e tale elemento era troppo grande per essere visto da vicino. Un elemento corale e impalpabile che è fatto di tensione, frustrazione, egoismo e paura.

      Tutti quegli specchi che ritornano non fanno altro che rifrazionare la personalità di Gracie (Julianne Moore), la protagonista indagata (il film, infatti, cresce come un noir, anche se in assenza di cadavere, anche senza la presenza di un assassino). Tanto che Gracie e Elizabeth (Natalie Portman) – la quale anche nella finzione è un’attrice che studia per diventare proprio l’alter ego di Gracie, per un biopic a lei dedicato – sono destinate a ibridarsi fatalmente. Come in “Persona” di Bergman (e il nome Elizabeth è un chiaro riferimento nel riferimento). Un ibrido mostruoso e affascinante a un tempo che si tramuta in una Eva tentatrice, come suggerisce il finale nella sua dimensione di scatola cinese, ossia di metacinema.

      Tutto quello che di sincero emerge nel film, di autentico, intendo, sembra essere contenuto una lettera d’amore scritta da Gracie a Joe durante una fase clandestina del loro amore – l’unica “prova” scritta sopravvissuta di quel tempo lontano – che Elizabeth, venuta in possesso grazie a Joe medesimo, re-interpreta recitandola parola per parola in un primissimo piano con camera-look che è un ennesimo specchio. Le parole interpretate vibrano nel profondo e commuovono l’attrice (nella finzione) in una sorta di trasferimento o metamorfosi che richiama l’omologa delle farfalle monarca, allevate da Joe. Il riferimento alle falene di “Il silenzio degli innocenti” coltivate da Buffalo Bill è pertinente fino a un certo punto: in questo caso, quello che a prima vista sembra essere un didascalismo pigro giustapposto da Haynes, incarna invece un infantile desiderio malcelato di fuga da parte di Joe, il quale, immedesimandosi nelle crisalidi, forse, sogna di cambiare vita, di ricominciare. Lo fa abbozzando, velleitariamente, così come flirta con una sconosciuta al telefono, o osservando desideroso l’immagine di Elizabeth cercata nottetempo, di nascosto, su internet. Di ciò ne è persuasa Elizabeth la quale ha gioco facile nel sedurlo, fingendo di compatirlo e di incoraggiarlo (sei “ancora” giovane “puoi ricominciare” gli dice prima di rubargli un bacio) trattandolo da persona irrisolta: rimasta bruco, in gabbia né più né meno.

      Ma che cosa c’è dietro, e all’interno di, questo intreccio stretto tra finzione, rappresentazione, mistificazione/manipolazione e realtà? Da quel che sappiamo, nel plot si annida una storia realmente accaduta che, alla fine degli anni Novanta, ha turbato gli Stati Uniti. La vicenda vide protagonista una trentaseienne madre di famiglia, sposata, innamorarsi di un tredicenne con il quale mette al mondo un figlio. Scoppia lo scandalo che porta la donna a una condanna, condonata in cambio di un allontanamento dal giovane partner. Nonostante ciò, la relazione tra i due continua clandestinamente – nella verità così come è raccontato nel film – portando a una seconda gravidanza, in barba ai divieti del tribunale che allora inasprisce la pena, mandando dietro le sbarre la donna. Una volta scontata la condanna, appena l’età del ragazzo lo consente, i due si sposano e stanno assieme una ventina d’anni fino a un divorzio consensuale, che però precede di poco una grave malattia che conduce la donna a morire prematuramente.
      Il film si allaccia a questa vicenda, con tutte le sue variazioni, Haynes, infatti, insiste nell’evidenziare le difformità rispetto al ‘caso’ di cronaca. Aprendo il film quando Joe ha già trentasei anni e una produzione cinematografica contatta la coppia per realizzare un biopic che ne racconti le vicissitudini. Ecco che Elizabeth, scritturata per interpretare Gracie, fedele a un estremo protocollo stanislavskijano, si intrufola nell’intimità della coppia, tentando fin da subito di farne esplodere le contraddizioni, sezionando i singoli componenti figli compresi (anche quelli del primo matrimonio, di cui uno ben si presta all’uopo), partendo da un presupposto evidente, ossia quello di sentirsi superiore a ognuno di loro. In realtà Gracie risulterà essere una donna molto più complessa rispetto all’ingenua figura che lei stessa dipinge parlando si sé. E’ una personalità che include parecchie qualità innegabili e accanto a ciò pratica il suo essere madre “tossica”, che insidia la figlia perché normativamente difforme da lei – così nordica, wasp – e in modo manipolatorio la guida verso il suo volere. Ossia l’obiettivo di Gracie era di farle coprire le braccia, ai suoi occhi troppo grosse per essere esibite. Così come il padre, Joe, nato da una relazione tra un coreano e una bianca, vive il suo essere partner e, al contempo, l’ennesimo figlio di Gracie. Anello debole della coppia, è l’unico membro della famiglia forse realmente fragile, nonostante le crisi di pianto, in camera da letto, di Gracie, la quale sembra così adottare un metodo di sfogo per sbollire/gestire la rabbia tra le lacrime a dirotto più che perpetuare l’immagine di una più banale ‘isteria’ generata da una frustrazione senza scopo.
      Elizabeth – attrice conscia del suo saper fingere, come spiega a giovani studenti che la interrogano sui lati più imbarazzanti del suo mestiere, elogiando i personaggi ambigui, le zone grigie, sequenza chiave del film -, infine, diviene il doppio di Gracie, ma non nel modo in cui l’aveva immaginato e coltivato. Avrebbe voluto esserlo da dominatrice, ossia razionalmente, invece, nonostante le sue macchinazioni e sostituzioni eticamente discutibili – arriva addirittura a fare sesso con Joe – è senza volere una vittima di Gracie oltre che del proprio desiderio di “essere” quella donna che considerava inferiore, quanto banale. Lo scopre grazie a un brivido inatteso che giunge verso la fine del film. Un brivido che svela una altrettanto inaspettata sicurezza propria di Gracie. Più regista che personaggio.
      Ma ormai il dado è tratto, la farfalla è volata via ed Elizabeth è finita in gabbia a sostituirla, perciò deve andare fino in fondo indossando la pelle – di serpente – di quello che è in tutto e per tutto il suo alter ego inatteso quanto irresistibilmente affascinante.

      Pleasure (2021)

      Pleasure (2021)
      Quest’opera a tesi dedicata alla produzione pornografica audiovisiva è stata realizzata durante la pandemia, non un proprio un dato superfluo, visto col senno del poi. Quello del porno è un ambito realizzativo che durante i mesi più critici determinati dalla cattività forzata, con conseguenti solitudini sociali, ha ottenuto particolare rilievo su piattaforma telematica. In qualche caso generando anche manifestazioni di simpatia a livello di social network. Pensiamo alla campagna di Pornhub finalizzata a un temporaneo accesso gratuito ai contenuti a pagamento, ufficialmente per alleviare il lockdown. E’ un’azione di marketing particolarmente riuscita che taluni osservatori culturali hanno definito ‘emersiva’ rispetto allo stigma cui la produzione porno è tradizionalmente confinata. Siamo dinanzi a una sorta di processo di normalizzazione/accettazione dell’industria pornografica con tutto quel che ne consegue in termini mediali.
      Il film di Ninja Thyberg si inserisce in tale processo, ma partendo da un senso opposto. “Pleasure”, pur essendo un soggetto finzionale, è stato presentato in alcuni festival come un’indagine sull’industria del porno visto attraverso il female gaze, dunque con il mandato di raccontare, se non la Verità, ‘una verità’ rispetto a una branca fiorente dell’audiovisivo, ambito controverso quanto misconosciuto. Il film ha ottenuto attenzioni da parte della critica di settore che l0 ha presentato, sì, come fiction, dando al contempo rilievo a un parallelo percorso d’inchiesta impegnato. Forse creando con ciò fin troppe aspettative.

      Infatti, da spettatore, avendo qualche anno di esperienza alle spalle, mi sono trovato ad assistere a un soggetto sentenzioso dove il plot è talmente forzato da franare, talvolta, sotto l’involontario ridicolo. Al netto di qualche pene eretto, visto in soggettiva dalla protagonista, sorta di rara eccezione in film dal forte filtro morale laddove si tende a censurare il sesso maschile, specie se pronto alla copula. Nonostante questa licenza, in breve scopri che i tuoi pregiudizi sono, purtroppo, confermati dall’andamento, stanco, della trama, che è assai telefonata così come si diceva un tempo.
      Non si tratta di prendere o non prendere per buono il fatto che il mondo del porno sia diverso da quello che, singolarmente, siamo propensi a pensare, nel bene o nel male. Ma, dal punto di vista di uno spettatore adulto, mediamente dotato di disincanto, verrebbe naturale pretendere uno sguardo analitico che si erga (appena) sopra un moralismo scontato quanto noioso. Rispetto a un mondo popolato da adulti che, si presume, abbiano visto in vita loro un film a luci rosse, siano dotati di minimo senso critico e, perciò, vi partecipino consenzienti. Se, invece, si vuole parlare di abusi e violenze nel mondo del porno allora, forse, bisogna dar vita a un percorso intellettualmente onesto, delimitandolo a casi magari emblematici, senza voler fare strame dell’intero mondo produttivo a esso legato. Altrimenti vale tutto. Data la confezione d’essai attribuita alla produzione, ecco che, forse, ci si aspetta un punto di vista più laico di quanto non sia.
      In estrema sintesi il film di Thyberg (classe 1984) risulta vecchio, perciò già visto, e non è diverso dalle conclusioni moralistiche delle inchieste dedicate all’argomento “sex work”, ad esempio, delle nostrane Iene televisive. Purtroppo “Pleasure” adotta lo stesso sguardo severo sul mondo del porno, uno sguardo che prelude alla inevitabile condanna, risultando sceneggiato solo un poco meglio rispetto ai citati pastoni paragiornalistici televisivi.
      E’ su Mubi.

      Ferrari (2023)

      Ferrari (2023)
      Il film di Mann – decano di un cinema d’autore che si rivolge al grande pubblico – adotta un moto narrativo circolare. La circolarità che è legata alla materia automobilistica, al circuito della pista, ma pure al senso del tempo, al rischio che presenta il conto – il karma, direbbero altre culture – nei confronti di chi sfida in velocità le leggi della fisica e, al contempo, la sorte.
      Mann filma la morte al lavoro in anni in cui i piloti dovevano fare testamento e scrivere lettere d’addio prima di cimentarsi con prove e competizioni agonistiche. In tutto questo Enzo Ferrari attraversa il suo piccolo ambiente di provincia (privo di stereotipi mangiaspaghetti à la Ridley Scott visti nei suoi film su Getty e Gucci), camminando incontro al mondo intero, senza voltarsi, apparentemente sicuro di sé, volto duro, ieratico che ricorda un moai (bravissimo Driver, forse nel suo ruolo più riuscito). Un capitano d’industria che pare sordo al dolore altrui, compensato dal successo cercato per non soccombere alle leggi del mercato e al conseguente fallimento della sua futuristica fucina di velocità.
      Personalmente aggiungo che in “Ferrari” ho trovato quel che, viceversa, cercavo anche in “Oppenheimer” ma senza troppa fortuna. Sono entrambi biopic basati sul ritratto ravvicinato, colmo micro dettagli, di primi piani, di silenzi e di sguardi. Parliamo di film diversissimi ma affini anche solo per il tema del superamento di un dato limite etico, un segno di demarcazione che prelude morte. Certo sono biografie imparagonabili per ambiente e scala, nonché per gli effetti del loro rispettivo ambito di azione, eppure (mi) sembrano accostabili per questioni di narrazione intima, nel curato tratteggio dell’ambizione a ogni costo, della ricerca di un successo che assume la morte quale compagna di strada in entrambe le vicende.
      I lineamenti dei personaggi, dei comprimari, dei ruoli femminili (notevole Penelope Cruz dal viso perennemente adombrato) si ergono dai facili stereotipi da soap opera che spesso i biopic portano in dote. Mann si smarca da ciò dando centralità alla circolarità dei rapporti speculari, ossia alle dualità moglie/amante, figlio morto/figlio vivo, fratello morto/protagonista vivo.
      Sono tempi, quelli dell’ambientazione storica, che oggi ci appaiono lontanissimi dove Mann mostra i drammatici effetti della retorica della morte idealizzata, quasi romantica, eroismo figlio di una cultura di guerra (come è noto il simbolo del cavallino rampante è legato al mito e alla memoria del soldato aviatore Francesco Baracca), dal singolo incidente mortale sino ciò che rimane di una strage, un macello ritratto nel suo orrore disarmante a margine, anzi a ciglio strada di un mondo che si potrebbe definire futile.
      Dall’apparentemente semplice formula di un biopic, che abbraccia un periodo decisivo della carriera di costruttore di Ferrari, emerge un film di scrittura raffinata, di spessore autorale – tipico del regista di Chicago, oggi ottantenne – con qualche spigolosità che ha reso difficile la pratica spettatoriale a una parte di pubblico. Al contempo la critica è pressoché concorde, seppure tra qualche distinguo, nel riconoscerne il valore stilistico di grande scuola.
      Disponibile su Prime.

      Petite maman (2021)

      Petite maman (2021)
      Questa volta Alice supera una linea immaginaria viaggiando attraverso un tempo speculare, che ha il suo compimento nell’incontro di una bambina di otto anni con la madre coetanea.
      Un segmento temporale di condivisione a metà tra necessità realistiche (tra esse la questione relazionale tra le generazioni, tra genitori e figli, tra nipote e nonna, la gestione del lutto) e realismo magico (l’iniziazione simbolica in rapporto al doppio materno). E’ una sospensione che oltrepassa i limiti dell’oggettività per poter tornare a dialogare in un luogo dell’immaginario, dove avviene un incontro a due, genuinamente simmetrico. Che talvolta si estende matrilinearmente a tre, ossia alla nonna appena venuta a mancare nella dimensione dell’attualità.
      La forzatura temporale è funzionale a un confronto-dialogo alla pari, dove la madre bambina ha già coscienza della maternità (non solo per mezzo del surrogato-bambolotto, ma si svela in un dialogo sibillino: “ti sto già pensando” le dice). Ai margini rimane, appunto, la nonna, motore della storia, presenza discreta e comprensiva, che la bambina di oggi ha la possibilità di salutare un’ultima volta, occasione negatale dalla vita reale.
      “Petite maman” è stato girato durante la pandemia, in particolare nel mezzo di un severo lockdown, che ci parla di spazi interni, limitrofi, di luoghi di condivisione temporale per quanto obbligata (è in atto lo svuotamento della casa della nonna defunta in funzione della vendita), in cui riverberano le conoscenze di prossimità obbligate dalle limitazioni anticovid, che è un viaggio a spirale nel passato recente e un viaggio generazionale. Ma è pure un film sul lutto legato sia a una persona venuta a mancare sia a un luogo, una casa, un letto. Un passato che va lasciato andare non prima di averlo guardato un’ultima volta, per dare a quegli spazi familiari un addio nerudiano.
      Uno sguardo che si posa contestualmente sulle sembianze del futuro rappresentate dalla figlia, bambina sveglia e curiosa, che riannoda fili sparsi dando loro senso e nuova forza. “Mi spiace di averti abbandonato” dice la madre tornata dalla sua breve fuga di negazione del lutto: un ritorno che collima con una ripartenza e un nuovo capitolo da scrivere, nonché leggere, assieme.
      La macchina del tempo è data “solo” dal montaggio, non dai costumi che si mantengono neutri (curati personalmente da Sciamma), né degli arredi che mostrano elementi di continuità propri della vecchia casa di famiglia. Parimenti lo sguardo del film si mette a livello delle due attrici bambine (gemelle, nella realtà) lasciando gli adulti appena ai margini, presenze discrete e parallele, dotate di comprensione ed empatia, seppur sempre indaffarate/preoccupate altrove.
      Il dialogo speculare tra le due bambine è un’intuizione che ricorda la vicenda delle gemelle ‘sfasate’ di Les revenants (2012), tra gli elementi narrativi più felici del serial cui, peraltro, Sciamma ha parzialmente collaborato.
      Per quanto riguarda la musica, entra in parallelo alle immagini solo quando, sostituendo i curatissimi rumori di casa e fruscii del bosco, le due anime bambine si intrecciano condividendo un’avventura, un breve viaggio a bordo di un gommone, in direzione di una struttura piramidale, dal valore vagamente esoterico, posta al centro di un fiume, sorta di viaggio di iniziazione comune quanto di pacificazione che, come nell’archetipo dantesco, è un attraversamento che prevede un ritorno.
      In attesa che la pantera prodigiosa compaia ancora una volta ai piedi del letto.

      Portrait de la jeune fille en feu – Ritratto della giovane in fiamme (2019)

      Portrait de la jeune fille en feu – Ritratto della giovane in fiamme (2019)
      [spoiler] Al netto di un plot lineare fondato sul mito orfico (incontro, innamoramento e perdita, cui seguono due ritrovamenti eterogenei, quanto casuali), il film di Sciamma entra a far parte di un filone aureo in cui la love story portante trasfigura nell’essenza del sentimento d’amore in termini assoluti. Si pone cioè oltre le banalizzazioni e gli stereotipi di genere, ma pure oltre la mera descrizione delle peculiarità dell’approccio omosessuale aspirando all’universalità, caratteristica evidente del cinema di Sciamma.


      Dati in numerosi giochi di sguardi presenti nel film, mi viene spontaneo porre “Portrait de la jeune fille en feu” a confronto con un modello cinematografico qual è “In the Mood for love”, posizionando l’opera di Sciamma in una sorta di contraltare, considerando che nel film di Wong Kar-wai il sesso è sublimato in luogo di un erotismo pulsante che permea ogni corpo, ogni oggetto, ogni evento. Laddove, viceversa, il percorso implicito cercato/trovato da Sciamma è affine all’omologo presente in “Chiamami col mio nome” di Guadagnino dove la conoscenza carnale è parte dell’elegia: passaggio intermedio utile a eternizzare il sentimento d’amore.
      La traccia principale, costruita in divenire, è letteralmente ‘svelata’ da tendaggi che via via vengono meno, di vestiti che cadono a terra, o per per mezzo di tele per la pittura che sono da supporto per la rivelazione dell’essenziale: tutti tessuti, intrecci che fanno da supporto/eco a trama e ordito propri della vicenda umana in essere. Ecco che, accanto a ciò, si avvia una riflessione più generale che verte sul potere evocativo dell’immagine riprodotta.
      L’ambientazione settecentesca permette a Sciamma di costruire in modo lento, contemplativo, il processo di identificazione dell’autrice nella sua musa. In assenza di fotografia e cinema, ci si affida alla pittura che, dalla tela bianca per mezzo di colori, di segni, di ombre e di luci, cerca, nel tutto, l’espressione di vita in un ritratto, né più né meno che una natura morta, paradosso dei paradossi. Tal quale al paradosso del sentimento d’amore: ossia il desiderio di cercarsi/ritrovarsi nell’altra/o da sé.
      Non senza passare attraverso una fase propedeutica iconoclasta che si tramuta via via in ricerca di quell’essenza indicibile.


      In questo caso l’immagine dell’amore corrisposto, puro, prende quota a partire da un percorso autobiografico appena filtrato dalla metafora. L’amore di Sciamma per la coprotagonista Adèle Haenel, musa che è stata compagna della regista per molti anni, è interpretato dal suo alter ego Marianne (Noémie Merlant) pittrice chiamata a ritrarre – dapprima in segreto – una riluttante Heloise, interpretata, appunto, da Haenel. Nel corso del tempo, Sciamma – tanto quanto Marianne – ha ritratto di film in film Haenel, cercando di valorizzarne la vitalità, e quest’opera pare ammettere che vi è riuscita solo dopo che la stessa musa ha fatto un passo di lato. Aggiungo che l’aspetto autobiografico mantiene una valenza semiologica importante, ma non ne inficia il valore strutturale tanto quanto fondamentale agli occhi di chi rimane ignaro del retroscena.
      E’ innanzitutto il mito orfico a essere reinterpretato. Le due protagoniste del film si convincono che Orfeo vuole dire definitivamente addio a Euridice perdendola per sempre in modo volontario, per quello si volta anzitempo, non tanto per mera impazienza o insipienza. Ma in quell’istante ultimo Orfeo può ancora guardarla, contemplarla ed eternizzarla.
      E l’ultima volta tra Eloise e Marianne il film la mostra in anticipo, in un ritratto notturno e spettrale, in bianco, dell’amata promessa sposa a un ignoto milanese. Un’allucinazione spaventevole che predice e che, perciò, prepara al distacco.


      Marianne è lo sguardo che osserva, non solo female gaze, come scrive qualcuno, ma sguardo universale utile per ritrarre Euridice in quanto altro da sé.
      Dopo qualche anno Marianne rivedrà una prima volta l’amata sottoforma di ritratto – fatto da un altro autore – con implicito omaggio erotico, tributo al loro amore sensuale: l’indice di Heloise posato sulla pagina 28 di un libro, pagina che contiene l’autoritratto di Marianne, rievoca a un tempo morfologicamente una vulva e rimanda a un atto sessuale.



      Il loro è un amore che sboccia – inatteso – in un mondo di obblighi, non solo patriarcali, ma pure matriarcali: prova ne è il potere incontestabile dell’ambigua madre di Heloise, vestale dello status quo, interpretata da Valeria Golino. La società settecentesca impone sacrifici alle donne in età da marito, oggetti utili per combinare matrimoni a scatola chiusa. Così di madre in figlia, nei secoli dei secoli. Prova – drammatica – ne è il ritratto prematrimoniale che raffigura la madre di Heloise ancor giovane e che campeggia sul salotto del palazzo già in disarmo. Vittima del medesimo fato che obbligherà al matrimonio Heloise, da tempo avviata a una carriera conventuale. Il destino ingrato è raccolto dalla sorella che, per sfuggirvi, si è data la morte.
      Peraltro il matrimonio è combinato in nome di una stabilità economica che vada a beneficio della madre stessa, ormai impoverita.



      Nel gioco di sguardi voyeuristici – che rispecchiano quelli dello spettatore – Marianne vede, questa volta di persona, Heloise a teatro, per l’ultima volta. La osserva da un palchetto di fronte, non vista, e noi con lei, in soggettiva, osserviamo mentre riecheggiano le note dell’Estate di Vivaldi, brano che Marianne stessa le aveva dedicato durante la loro convivenza. L’ascolto provoca in Heloise forti emozioni, difficili da trattenere, una commistione tra il riso e il pianto.


      L’amore interrotto, sembra dire il film, rischia di essere longevo, il più longevo tra gli amori possibili, ravvivato più dal rimpianto che dalla semplice nostalgia. Il rimpianto diviene sentimento motore di un immaginario amoroso totalizzante che è fatto di immagini cristallizzate su tela o fatte di ricordi, visioni e proiezioni (anche cinematografiche) eternizzanti come quell’ultimo sguardo nell’aldilà tra Orfeo ed Euridice.