Asteroid city (2023)

Asteroid city (2023). La colorata cinefilia di Wes Anderson qui si mantiene in equilibrio tra (auto)ironia e riflessione sul dispositivo finzionale recitativo e filmico. “Asteroid city” riprende gli stilemi celebri del cinema classico del dopoguerra citando, in particolare, quei titoli che fanno i conti con le nevrosi che Hollywood coglie amplificandole lungo gli anni Cinquanta. Nell’opera di Anderson convivono, infatti, sublimate da una realtà sospesa, sia la paura dell’apocalissi nucleare, sia la fobia dell’alieno (che non è più metafora del comunista, né del maccartista, bensì qui diviene umano troppo umano) venendo reinserite entrambe senza pedanti giudizi di valore in un flusso di finzione scenica al quadrato (teatral-cinematografica) e filtrate da un omaggio pittorico che si rifà a Hopper e Rockwell. Da un lato il colore e il formato panoramico dell’artificio filmico; dall’altro il bianconero della realtà ricondotto alla centralità dello schermo quadrato (un grande ritorno nel cinema degli ultimi anni). Nulla è magnificato e nulla è svilito in un villaggio posto nel mezzo del deserto, fondato in un luogo ‘scelto’ da un asteroide. Qui la morte accompagna, apparentemente discreta, il dolore che tocca ogni personaggio, segnando capitolo per capitolo la sceneggiatura che Anderson svela corrodendo a ogni passo la sospensione dell’incredulità.
Non manca il riferimento al grande divismo coevo incarnato da una Scarlett Johanson a metà tra una bionda Kim (questo il nome del suo personaggio) Novak e Marilyn in versione castana che si suicida (anche) perché può farlo. Per contro vi galleggia la ridicola mascolinità à la John Wayne (che, peraltro, muore a causa di radiazioni generate da test atomici durante le riprese di un film: tout se tient) evidenziata da pistoloni esibiti, al contempo involontaria misura delle proprie frustrazioni.
Non manca un easter egg uditivo che si ricongiunge alla fantascienza della guerra fredda che, a propria volta, contiene un sorprendente omaggio a “Mars Attaks!”, film degli anni Novanta che pure giocava con quell’immaginario paranoico-maccartista. Wes Anderson fa, infatti, accompagnare alcune sequenze dalle note di “Indian Love Call” canzone di Slim Whitman che nel film di Tim Burton diveniva, suo malgrado, arma di sterminio per i marziani cervellotici, incapaci di sopportarne gli acuti e, implicitamente, l’amoroso messaggio.
Più amore per il cinema-cinema di così si muore (letteralmente).
Disponibile su Now/Sky.


We Are Who We Are (2020)


We Are Who We Are (2020). “These days, fathers only matter to those who don’t have one” dice, ironico, il soldato Jonathan (Tom Mercier) al giovane Fraser (un bravissimo Jack Dylan Grazer) cresciuto – conflittualmente – con due madri senza sapere nulla del padre biologico, per l’ostinata volontà della donna che l’ha partorito (Chloë Sevigny). Fraser rimane comunque spiazzato da questa sorta di motto aforistico pronunciato da Jonathan che dovrebbe, forse, rassicurarlo nella sua opera di relativizzazione così estrema. In questa frase lapidaria trova senso gran parte del serial che si prende la briga di raccontare un percorso frammentato di passaggio, colmo di false partenze, che non è un mero romanzo di formazione, ma ricerca che passa dalla razionalità attraverso le pulsioni, dai sentimenti alle emozioni del corpo, creando un viluppo complesso e caotico alla base di una ricerca di personale, intima, verità.
Protagonisti del viaggio – suddiviso in otto puntate – sono Frazier e il suo alter ego Caitlin (Jordan Kristine Seamón) la quale, non appena fuori dal suo ambiente quotidiano, si riconosce nell’identità maschile di Harper e così si propone al prossimo.
L’ambiente quotidiano è rappresentato dal villaggio interno a una base militare americana sita alle porte di Chioggia, un luogo di molteplici confini, anche interiori, che permette a Guadagnino di ibridare tra loro corpi, linguaggi, culture, religioni, nichilismi, generazioni diverse ritratte in (talvolta perenne) transizione. Sullo sfondo compare un’altra transizione importante perché riguarda la politica internazionale (è il 2016, durante gli ultimi scampoli della campagna elettorale che vede vincere Trump) che fa rima con un salto nel vuoto. Accanto a ciò, troviamo il progetto, per quanto vago e desiderato, di transizione sessuale (una idea di cambiamento che, a un certo punto, si rispecchia in un terrario contenente un camaleonte); vi riconosciamo anche una transizione culturale che mette insieme varie provenienze (le lingue inglese e italiana si intrecciano con il dialetto veneto creando un melting pot che funziona particolarmente bene, al di là di ogni verisimiglianza); non manca l’insidiosa, perché oppositiva, transizione religiosa con radicalizzazione da un lato (un ragazzo con origini africane, che subisce la figura del patrigno militare statunitense, ricerca la propria identità abbracciando l’islam più radicale e minaccioso) e la contestuale negazione assoluta di ogni fede (una giovanissima vedova di guerra a causa del lutto rinuncia a credere a qualsiasi disegno ultraterreno).
Nel mezzo c’è la vita, sospesa, di tutti i giorni, perennemente affiancata dal rischio che si muove su varie frequenze reali e ipotetiche, a costo di essere smascherati. Nel villaggio militare echeggia la guerra in Afghanistan: il conflitto chiede un tributo di vite che pare sempre più insensato a distanza di quindici anni dall’11 settembre. In questa sospensione trova posto anche l’amore metamorfico come possibile via di riscatto dal grigiore, dal regolamento marziale, in virtù di un riconoscimento reciproco. Un riconoscimento che viene dopo aver tentato di cambiare pelle, capelli, barba e dopo aver fantasticato su organi sessuali da modificare. Quest’ultimo rimane a lungo l’unico piano realizzabile, un antidoto al veleno quotidiano, una fuga in avanti sovraccarica di speranza, al di là di un gruppo di adulti/genitori deludenti altrettanto confusi, combattuti, fragili, egoisti. Esempi discutibili per qualità di pensiero e coerenza, mentre pretendono dai più giovani una condotta ligia.
Bellissimo e istruttivo, profondo e leggero a un tempo, il serial di Guadagnino produce uno sguardo utile, fecondo, sul mondo prossimo venturo che, in realtà, è già “qui e ora”.
Disponibile su Now TV/Sky.

Mary & George (2024)

Mary & George (2024). Ascesa, cadute, resurrezioni, intrighi politici & sessualità promiscua di Mary (Julianne Moore) e del figlio George (Nicholas Galitzine) insinuatisi con profitto nella corte di re Giacomo I Stuart (Tony Curran). Il serial mette al centro del racconto la figura controversa dell’avvenente Duca di Buckingham (resa leggendaria dai tre moschettieri dumasiani) dapprima fragile adolescente manipolato dalla madre, divenuto col tempo demiurgo della monarchia britannica in vece del debole Giacomo, tenuto sotto scacco per mezzo di una intensa, morbosa, relazione omosessuale mai realmente nascosta negli ambienti di corte, viepiù confermata dalla storiografia.
La serie antologica, suddivisa in sette puntate, diviene pretesto, ennesimo, per una attualizzazione del passato, tanto frequente quanto sovrastimata. L’ambientazione è, infatti, ricostruita – anzi ristrutturata – per mezzo di anacronismi scientemente ricercati, vi spiccano i dialoghi, spesso crudi e scurrili, di matrice contemporanea: nulla di nuovo, insomma. Nonostante il cast notevole, pare di assistere all’animazione di tableau vivant di dipinti secenteschi laddove, però, la storia ispirata a fatti realmente accaduti – costituita perlopiù da intrighi di palazzo – diviene mero sfondo agli intrecci sessuali, con relativa carrellata di orge che paiono ispirate alle prime stagioni di “Games of Thrones”. Tutto ciò contribuisce a mantenere il già prolisso serial nell’alveo del déjà vu di una trasgressione manierata, perciò prevedibile quanto presunta.
Aggiungo che la miniserie è stata generalmente apprezzata dalla critica, ma, vista la scarsa innovazione della messinscena, se messa a confronto con altri prodotti simili, dubito, personalmente, ce ne ricorderemo tra qualche tempo.
Disponibile su Now TV/Sky.

Inside Out 2 (2024)

Inside Out 2 (2024). Una nuova fase di crescita di Riley è caratterizzata da complessità e angosce che ne movimentano la quotidianità di preadolescente. Rispetto al primo episodio (2015) i grattacapi della protagonista ora sono legati alla proiezione di sé – tanto nei recessi più intimi quanto all’esterno – manipolata da insicurezze e ansia montanti. I piccoli grandi problemi di Riley sono esasperati dalla paura di fallire, ma solo perché l’età dell’incertezza – sembra dire il film – è dettata da sbalzi di umore che non lasciano il tempo per ragionare sufficientemente. Al genitore in salsa Pixar, dunque, non resta che farsi airbag cortese in attesa di tempi migliori; nel mentre la metafora filmica punta tutto sul conflitto interno, non lasciando più alcuna traccia della dialettica serrata avuta tra Riley e i genitori nel primo film. Inoltre “Inside Out 2” non vuole essere una puntata di “Siamo fatti così”: qui si parla di interiorità, di psiche, di irrazionalità e di razionalità, di ciò che avviene nel cervello, non si parla di mestruazioni, di ormoni, di peli, di piedi troppo grandi o gambe improvvisamente troppo lunghe. Il lato sessuale è appena camuffato dietro a blandi affetti e altrettanto vaghe proieizioni di Riley nell’alter ego mascolino, ma senza calcare la mano, concentrando invero l’attenzione sul valore dell’amicizia disinteressata. 

A latere resta una questione notevole quanto (ancora) inesplicata. Tra le emozioni di Riley le personificazioni di “Paura” e di “Rabbia”, in particolare, mantengono, come nel primo film, identità mascoline, al contrario degli altri personaggi – ad esempio genitori e amici – in cui le emozioni, invece, sono tutte declinate al genere di appartenenza del personaggio medesimo. Chissà se questa ‘fluidità’ implicita, insita nella personalità della giovane protagonista, potrà conoscere ulteriori sviluppi in un nuovo, quanto ipotetico, sequel.

Tornando nel merito, Inside Out 2″ è un film destinato ai (pre)puberi e ai loro genitori, a quei bambini del 2015 (e anni successivi) che nel frattempo sono cresciuti, il cui messaggio si fa rassicurante nella rappresentazione della metamorfosi di Riley da bambina ad adolescente, senza mai esacerbare conflitti esteriori (nonostante non manchino), senza più quel basso bordone luttuoso che agiva nel profondo del primo film. Qui non muore nessuno, nemmeno un personaggio di fantasia, ma, anzi, si affolla la plancia di comando, laddove trionfa anarchicamente una regista wannabe: l’ansia.
Dal punto di vista grafico non si registra alcuna innovazione rispetto al precedente, un segnale che in casa Pixar si preferisce rassicurare anche sul piano formalistico.
Comunque sia è un film assai godibile per ritmo e coerenza narrativa, apprezzabile ancor di più se si è nel target (fanciullesco e genitoriale) d’elezione.

Gasoline Rainbow (2023)

“Gasoline Rainbow” (2023). On the road “trip” (cito dal manifesto) movie e ‘romanzo di formazione’ dal forte impianto picaresco (ovvero ogni capitolo corrisponde a una nuova tappa e un nuovo personaggio-chiave) che mette in connessione vecchi miti beat (non solo Kerouac, ma anche celeberrime hit musicali) con le attuali giovani generazioni. E’ un racconto talvolta un po’ troppo teorico-astratto che si mantiene volutamente sulla superficie mentre ritrae un gruppo di ragazzi che tentano di appropriarsi della vita attraverso incontri più o meno importanti, comprese disavventure all’acqua di rose, ma incrociando vite vissute – spesso ai margini, ma sempre civili e gradevoli -, seguendo vaghi ideali fricchettoni un po’ imborghesiti, senza odio di classe, senza esempi brutti e cattivi. In breve: questo viaggio ha quale obiettivo raggiungere una festa che crea grandi aspettative.
Lungo il viaggio entrano di sguincio anche alcune tematiche socio-politiche che hanno segnato i tempi recenti, dal razzismo atavico, che si traduce nella paura dei neri di poter viaggiare incolumi.
Da sottolineare una sospetta assenza di tutto quel che riguarda l’iniziazione al sesso. Non che ciò sia obbligatorio, ma emendare la sfera sessuale in un film dedicato ad adolescenti senza spiegare troppo il perché non può essere casuale, ma tant’è. Inoltre non emerge mai la faccia violenta dell’America, insomma il film propone un volto degli Usa poco praticato, ma che esprime l’attualità in transizione tra due possibili ere trumpiane. I fratelli Ross ci accompagnano cioè appena fuori da alcuni stereotipi socio-cinematografici (il fenomeno dei white trash, cardine di molto cinema, molta televisione e molta letteratura attuale), cliché con i quali comunque il film talvolta si intreccia in modo ironico, disinnescandone però i lati occulti.
Tra le citazioni divertite emerge un passamontagna rosa, indossato da una delle protagoniste, che non può che richiamare un film estremo e meraviglioso come “Spring Breakers” (2012) di Harmony Korine con cui “Gasoline Rainbow” dialoga.
Per il resto pare un capitolo di un soggetto cinematografico che potrebbe proseguire in un ipotetico sequel, ma è pure la versione/risposta adolescenziale di “Nomadland” solo con un pizzico di speranza in più per il futuro.
L’incontro finale – ambientato in riva al mare di notte – con una sogliola e con la paura di incrociare vaghi serpentoni marini, si dipana tra fenomeni di luminescenza che caratterizzano la spiaggia. Sono elementi che paiono dialogare con l’analogo mistero, solo più perturbante, espresso nell’epilogo di “La dolce vita”, laddove attorno al mostruoso animale marino spiaggiato si generano fughe in un mondo fantastico quanto ineffabile. Ma ecco che la fuga in avanti speranzosa, tesa a un dopo generazionale di là da venire, incarnato da questi giovani sani e gioiosi, potrebbe essere la chiave per comprendere e apprezzare “Gasoline Rainbow”.
Su Mubi.

Kinds of Kindness (2024)

Kinds of Kindness (2024). Lanthimos torna al freakshow degli esordi trasferendo gli orrori partoriti dalle periferie greche tra le pieghe di un’America dai connotati onirici, introdotti dalle note di “Sweet Dreams”. Un immaginario che, però, al contempo si propone come realistico cannibalizzando così alcuni stilemi partoriti dalla più seriosa serialità contemporanea, prendendone cioè in giro riti e sarcasmi d’élite. Per chiarire tale “mission”, Lanthimos suddivide il film in tre episodi collegati idealmente tra loro da un filo rosso (sangue). Per stilemi della serialità contemporanea mi riferisco, in particolare, al riverbero in KoK di alcune distopie populiste proprie di “Black Mirror”, passando per le stagioni più deludenti di “Fargo” e dal celebrato bluff – che vorrebbe essere satirico – di “Nine perfect strangers”, rievocando ancora una volta la compartimentazione narrativa già esperita nel suo “The Lobster” (un personaggio = un mondo). Insomma è questo un Lanthimos che potrebbe non  piacere a chi l’ha apprezzato in “La favorita” e in “Povere creature!” e, difatti, mediamente, a costoro non piace. Da ciò si potrebbe supporre che KoK patisca soprattutto la vicinanza con i due recenti successi di marca disneyana, così diversi per respiro narrativo e stile barocco.

Tornando a KoK, nei tre racconti ritroviamo tre diversi Willem Dafoe (padre e/o padrone) che in tutti i casi influenza (o tenta di influenzare), tre Emma Stone e tre Jesse Plemons, l’una l’alter ego dell’altro, complementari o alternativi collocati in un ordine gerarchico sempre differente in cui il sesso non è mai il punto di arrivo, bensì un espediente per raggiungere uno scopo di potere (o di sostituzione).
In queste tre stanze – legate simbolicamente quanto slegate narrativamente – Lanthimos vuole, in modo letterale, sbudellare i rituali della narrativa audiovisiva attuale, liberando i colori sanguigni più occulti, gli odori dei corpi vivi e in putrefazione, dei fluidi da essi prodotti, tentando di ricevere dall’opera di decostruzione l’eco di un’insensatezza più generale. Una privazione di senso non tanto del mestiere di vivere, ma della rappresentazione sovraccaricata di realismo cui la fiction su piattaforma – che è sempre più l’impero del biopic – sembra aver incatenato il pubblico. Lanthimos, nondimeno, pare colpire per mezzo delle armi del grottesco e del fantastico la presa in carico di tematiche ricorrenti che si autolegittimano rivestendo un sostanziale vuoto di idee. Un buco nero conformistico che caratterizza gran parte della produzione finzionale attuale condannata a ripetere se stessa in loop, cambiando nomi e contesti, ma non i soggetti: da qui l’eco dell’utilizzo degli stessi tre attori per tre ruoli diversi (quattro addirittura per Margaret Qualley). Ossia “Kinds of Kindness” evoca gli stereotipi della produzione seriale dando al lungometraggio su grande schermo il formato a episodi mettendone così in evidenza le molte fragilità intrinseche.
Non male come riflessione sullo stato dell’arte audiovisiva, non male come esorcismo, non male in quanto a rivalsa a favore del formato cinematografico.

P.S. Da segnalare la surreale breve fuga in una dimensione parallela in bianco/nero (che corrisponde alla forma del sogno) dominata da cani che vivono secondo usi e costumi – anche estremi – umani.
(P.P.S. Non basta una sola visione.)

The Fall Guy (2024)

The Fall Guy (2024). La prima mezzora del film si può sintetizzare come una divertente rom-com acrobatica caratterizzata dalla classica struttura tripartita (placida condizione iniziale, caos, ritorno all’ordine), animata da un Ryan Gosling perfetto nella sua ennesima rimediazione divistico-ironica supportata da una buona prova attorica. Mentre ti appresti a lasciare la sala, e anche piuttosto soddisfatto, scopri drammaticamente che – dopo l’apparente riconciliazione “finale” tra i protagonisti, ossia Gosling e Emily Blunt -, purtroppo, sta per iniziare una seconda fase del racconto. 
Una seconda parte che si traduce in una lenta agonia – lunga un’ora e mezzo abbondante – che si smaglia sottoforma di traccia gialla (c’è un omicidio di mezzo), frammista alla love story (rimessa in discussione da uno spompato gioco degli equivoci) e a un film d’inseguimenti spettacolare (tipo fast & furious), laddove si ripetono acrobazie popolate da cattivi attori (con in testa la monocorde Blunt, qui imbarazzante a dir poco). Tutti quanti – regista, attori e, ahinoi, spettatori – scopriamo d’essere condannati a un contrappasso ingrato: ossia a superare le due ore per motivi contrattuali senza aver nulla da vedere/apprezzare. “The Fall Guy” diventa così un lungo déjà vu piuttosto mortificante, e forse lo è anche per gli appassionati del genere veloce e furioso, in cui il protagonista si salva e non certo per le sue doti finzionali di stuntman.
Per giunta il doppiaggio è orripilante: al netto di eventuali problemi della sala, pare pure missato male, fatto che aggrava ulteriormente una struttura di per se stessa particolarmente catastrofica (fuori metafora).

Feud: Capote vs. The Swans (2024)

“Feud: Truman vs. The Swans” (2024) è una preghiera non esaudita, non del tutto almeno, ed è questa sorta di sospensione, specularizzazione dell’ultimo – incompleto – romanzo promesso/minacciato da Capote intitolato “Preghiere esaudite”, a rendere il serial vivido, al netto di alcuni aspetti digressivi ridondanti.
Il difficile incedere del racconto, talvolta sin troppo involuto, non ne intacca l’essenza di pregio, marchio delle lussuose produzioni di Ryan Murphy, il quale continua a (ri)raccontare i miti americani del Novecento, ponendoli in controluce, ma senza rinunciare al riverbero dello splendore, alla bellezza, all’eleganza (quando c’è) di un mondo effimero e in quanto tale perduto per sempre. Un mondo non necessariamente migliore del nostro: ricco di oro e di fascino, fatto di apparenze, ma pure di strategie, di falsità, di morte, condotto sotto le insegne dello stile, che diviene una sorta di contrappeso alle umane miserie.

La produzione è filtrata da Gus Van Sant, tra i migliori registi della sua generazione, che del sogno americano ha raccontato l’irregolarità e il marginale, tracciando la parabola della falena attratta dalla fiaccola fatale nel rispetto dell’essenza dei suoi personaggi, anche i più controversi, oltre gli stereotipi. Chiunque abbia amato la prima stagione di Feud ritroverà in questa nuova serie la cura dei particolari senza la volgarità esibita degli arricchiti che gravitano su Hollywood: è la bambagia del jet-set newyorkese degli anni Sessanta e Settanta. Ambiente esclusivo del quale Capote è diventato il Petronio redivivo: sublime cantore e spietato demolitore. Anche egli è attratto dal luccichio che promana l’alta società, ma non è attirato come la falena – non da principio almeno – bensì come la gazza ladra che ruba per raccontare senza esserne pienamente abbacinata, senza rinunciare a rilevare i lati oscuri del bel mondo. Tuttavia data la vicinanza prolungata, ne resta intimamente coinvolto e condannato all’autodistruzione.
Il punto di forza del serial non è tanto nell’insieme (come invece si riscontrava nel precedente esperimento) ma nel coro dei personaggi, i cigni di Capote sono donne bellissime e affascinanti (con in testa Naomi Watts e Diane Lane), spaventose e ammalianti come le grandi seduttrici sanno essere. Su tutte emerge l’apparentemente eterea Babe Paley (Watts), l’anima gemella di Truman per quanto platonica, che sarà incapace di perdonare il confidente per averla denigrata in un capitolo di “Preghiere esaudite”, brano che Capote offre in anteprima a “Esquire”. Il testo costerà allo scrittore la condanna all’ostracismo da parte di cigni e la via di un lento, inesorabile, viale del tramonto che ha i tratti di un suicidio, né più né meno. Infatti i cigni (tranne qualche eccezione) non lo perdonarono mai per le sue rivelazioni e Capote, rimasto senza assoluzione, si vota al cupio dissolvi: alla rovina psicologico-fisica – indotta da un alcolismo senza uscita – nonché economica.

A margine del serial resta qualche dubbio rispetto all’interpretazione di Tom Hollander che si cala in modo pesante nel ruolo dello scrittore. Il gigionismo che ne caratterizza la performance non sempre fa emergere il personaggio rispetto alla maschera. Talvolta, anzi, l’approccio iper-mimetico disturba la comprensione del testo. Al netto dei lati più discutibili, la seconda stagione di “Feud” rimane tra i migliori prodotti seriali in circolazione per coraggio, idee, invenzioni, qualità di realizzazione. L’episodio forse più intenso dal punto di vista del pathos è diretto da Jennifer Lynch.
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