Kinds of Kindness (2024)

Kinds of Kindness (2024). Lanthimos torna al freakshow degli esordi trasferendo gli orrori partoriti dalle periferie greche tra le pieghe di un’America dai connotati onirici, introdotti dalle note di “Sweet Dreams”. Un immaginario che, però, al contempo si propone come realistico cannibalizzando così alcuni stilemi partoriti dalla più seriosa serialità contemporanea, prendendone cioè in giro riti e sarcasmi d’élite. Per chiarire tale “mission”, Lanthimos suddivide il film in tre episodi collegati idealmente tra loro da un filo rosso (sangue). Per stilemi della serialità contemporanea mi riferisco, in particolare, al riverbero in KoK di alcune distopie populiste proprie di “Black Mirror”, passando per le stagioni più deludenti di “Fargo” e dal celebrato bluff – che vorrebbe essere satirico – di “Nine perfect strangers”, rievocando ancora una volta la compartimentazione narrativa già esperita nel suo “The Lobster” (un personaggio = un mondo). Insomma è questo un Lanthimos che potrebbe non  piacere a chi l’ha apprezzato in “La favorita” e in “Povere creature!” e, difatti, mediamente, a costoro non piace. Da ciò si potrebbe supporre che KoK patisca soprattutto la vicinanza con i due recenti successi di marca disneyana, così diversi per respiro narrativo e stile barocco.

Tornando a KoK, nei tre racconti ritroviamo tre diversi Willem Dafoe (padre e/o padrone) che in tutti i casi influenza (o tenta di influenzare), tre Emma Stone e tre Jesse Plemons, l’una l’alter ego dell’altro, complementari o alternativi collocati in un ordine gerarchico sempre differente in cui il sesso non è mai il punto di arrivo, bensì un espediente per raggiungere uno scopo di potere (o di sostituzione).
In queste tre stanze – legate simbolicamente quanto slegate narrativamente – Lanthimos vuole, in modo letterale, sbudellare i rituali della narrativa audiovisiva attuale, liberando i colori sanguigni più occulti, gli odori dei corpi vivi e in putrefazione, dei fluidi da essi prodotti, tentando di ricevere dall’opera di decostruzione l’eco di un’insensatezza più generale. Una privazione di senso non tanto del mestiere di vivere, ma della rappresentazione sovraccaricata di realismo cui la fiction su piattaforma – che è sempre più l’impero del biopic – sembra aver incatenato il pubblico. Lanthimos, nondimeno, pare colpire per mezzo delle armi del grottesco e del fantastico la presa in carico di tematiche ricorrenti che si autolegittimano rivestendo un sostanziale vuoto di idee. Un buco nero conformistico che caratterizza gran parte della produzione finzionale attuale condannata a ripetere se stessa in loop, cambiando nomi e contesti, ma non i soggetti: da qui l’eco dell’utilizzo degli stessi tre attori per tre ruoli diversi (quattro addirittura per Margaret Qualley). Ossia “Kinds of Kindness” evoca gli stereotipi della produzione seriale dando al lungometraggio su grande schermo il formato a episodi mettendone così in evidenza le molte fragilità intrinseche.
Non male come riflessione sullo stato dell’arte audiovisiva, non male come esorcismo, non male in quanto a rivalsa a favore del formato cinematografico.

P.S. Da segnalare la surreale breve fuga in una dimensione parallela in bianco/nero (che corrisponde alla forma del sogno) dominata da cani che vivono secondo usi e costumi – anche estremi – umani.
(P.P.S. Non basta una sola visione.)

Autore: Cinex

Note ai film per nulla obiettive: una risposta sbagliata ai Dizionari da un vecchio blog più volte caduto in oblio, ma mai abbastanza.

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