We Are Who We Are (2020)


We Are Who We Are (2020). “These days, fathers only matter to those who don’t have one” dice, ironico, il soldato Jonathan (Tom Mercier) al giovane Fraser (un bravissimo Jack Dylan Grazer) cresciuto – conflittualmente – con due madri senza sapere nulla del padre biologico, per l’ostinata volontà della donna che l’ha partorito (Chloë Sevigny). Fraser rimane comunque spiazzato da questa sorta di motto aforistico pronunciato da Jonathan che dovrebbe, forse, rassicurarlo nella sua opera di relativizzazione così estrema. In questa frase lapidaria trova senso gran parte del serial che si prende la briga di raccontare un percorso frammentato di passaggio, colmo di false partenze, che non è un mero romanzo di formazione, ma ricerca che passa dalla razionalità attraverso le pulsioni, dai sentimenti alle emozioni del corpo, creando un viluppo complesso e caotico alla base di una ricerca di personale, intima, verità.
Protagonisti del viaggio – suddiviso in otto puntate – sono Frazier e il suo alter ego Caitlin (Jordan Kristine Seamón) la quale, non appena fuori dal suo ambiente quotidiano, si riconosce nell’identità maschile di Harper e così si propone al prossimo.
L’ambiente quotidiano è rappresentato dal villaggio interno a una base militare americana sita alle porte di Chioggia, un luogo di molteplici confini, anche interiori, che permette a Guadagnino di ibridare tra loro corpi, linguaggi, culture, religioni, nichilismi, generazioni diverse ritratte in (talvolta perenne) transizione. Sullo sfondo compare un’altra transizione importante perché riguarda la politica internazionale (è il 2016, durante gli ultimi scampoli della campagna elettorale che vede vincere Trump) che fa rima con un salto nel vuoto. Accanto a ciò, troviamo il progetto, per quanto vago e desiderato, di transizione sessuale (una idea di cambiamento che, a un certo punto, si rispecchia in un terrario contenente un camaleonte); vi riconosciamo anche una transizione culturale che mette insieme varie provenienze (le lingue inglese e italiana si intrecciano con il dialetto veneto creando un melting pot che funziona particolarmente bene, al di là di ogni verisimiglianza); non manca l’insidiosa, perché oppositiva, transizione religiosa con radicalizzazione da un lato (un ragazzo con origini africane, che subisce la figura del patrigno militare statunitense, ricerca la propria identità abbracciando l’islam più radicale e minaccioso) e la contestuale negazione assoluta di ogni fede (una giovanissima vedova di guerra a causa del lutto rinuncia a credere a qualsiasi disegno ultraterreno).
Nel mezzo c’è la vita, sospesa, di tutti i giorni, perennemente affiancata dal rischio che si muove su varie frequenze reali e ipotetiche, a costo di essere smascherati. Nel villaggio militare echeggia la guerra in Afghanistan: il conflitto chiede un tributo di vite che pare sempre più insensato a distanza di quindici anni dall’11 settembre. In questa sospensione trova posto anche l’amore metamorfico come possibile via di riscatto dal grigiore, dal regolamento marziale, in virtù di un riconoscimento reciproco. Un riconoscimento che viene dopo aver tentato di cambiare pelle, capelli, barba e dopo aver fantasticato su organi sessuali da modificare. Quest’ultimo rimane a lungo l’unico piano realizzabile, un antidoto al veleno quotidiano, una fuga in avanti sovraccarica di speranza, al di là di un gruppo di adulti/genitori deludenti altrettanto confusi, combattuti, fragili, egoisti. Esempi discutibili per qualità di pensiero e coerenza, mentre pretendono dai più giovani una condotta ligia.
Bellissimo e istruttivo, profondo e leggero a un tempo, il serial di Guadagnino produce uno sguardo utile, fecondo, sul mondo prossimo venturo che, in realtà, è già “qui e ora”.
Disponibile su Now TV/Sky.

Autore: Cinex

Note ai film per nulla obiettive: una risposta sbagliata ai Dizionari da un vecchio blog più volte caduto in oblio, ma mai abbastanza.

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